Esistono tre tipi di reazioni a una campagna pubblicitaria, qualunque sia il suo obiettivo: apprezzamento, indifferenza, indignazione. Potremmo discutere per ore su quale sia davvero negativa, tra l’indifferenza e l’indignazione, ma ciò che sta accadendo da giorni sui social inglesi dimostra come a volte sia davvero meglio non farsi notare. Andiamo con ordine.
Il caso Fatima
Nei giorni scorsi è diventato virale un manifesto, in cui possiamo notare una ballerina e, come slogan, “Il prossimo lavoro di Fatima potrebbe essere nel digitale. Ripensa, riaddestrati, ricomincia.”. Non proprio il migliore degli auguri verso quel mondo dell’arte così tanto in difficoltà negli ultimi mesi.
Così, se da un lato la mancata uscita di molti blockbuster, tra cui l’ultimo 007, sta mettendo in crisi il settore della distribuzione cinematografica, con alcuni cinema inglesi che sono ricorsi alla trasmissione delle partite di Premier League per sopperire alla mancanza di spettacoli e di spettatori, l’iniziativa governativa di questo slogan non fa che colpire ancora di più l’idea che si può avere del mondo dell’arte e della cultura nel Regno Unito.
L’iniziativa è stata infatti ampiamente criticata, generando un sentimento di indignazione che ha portato buona parte della politica a prendere le distanze da tale iniziativa, con la colpa ricaduta sul Cancelliere Rishi Sunak, il quale aveva già suscitato un certo sdegno nell’invitare i lavoratori del mondo dell’arte a sfruttare il periodo di pandemia per riqualificarsi e aprirsi verso nuove vie lavorative.
La rete non ha mancato di portare il proprio supporto alla causa, con meme in cui il volto di Fatima veniva sostituito di volta in volta a vari politici, tra cui Boris Johnson e lo stesso Rishi Sunak.
Purché se ne parli?
Altro che “purché se ne parli”: non essendoci alcun tipo di prodotto da vendere, o curiosità da generare, l’indignazione ha solo avuto l’effetto di inasprire il confronto tra le varie parti in gioco, con i lavoratori dello spettacolo già preoccupati per il loro futuro dopo diversi mesi economicamente devastanti.
Non solo: se è vero che la rete può essere la soluzione a molti problemi, così come può essere una alternativa (come molte piattaforme di streaming stanno dimostrando), un paragone come quello del poster non punta a sfruttare le potenzialità di questa stessa rete, ma di metterla al contrario in competizione con quel reale che non può essere sostituito.
La rete deve e può essere compagna e alleata dell’arte, in un simile periodo, e non la sua ultima avversaria prima della sconfitta.
Non è tutto oro quel che luccica
Ed ora è il momento di lasciare che la verità ci strappi una amara risata: il poster è in realtà precedente alla pandemia, risale infatti a una campagna a favore del digitale dello scorso dicembre. Cosa significa tutto ciò?
In primis, che l’indignazione si è scatenata per una associazione di causa e effetto che non esiste: il poster non è infatti nato a seguito della pandemia. Ci si potrebbe quindi indignare meno? Secondo alcuni fautori tutt’altro: un simile slogan significa che l’attenzione per la cultura era già bassa ben prima della pandemia.
Al tempo stesso, ci consegna una nuova testimonianza di come un uso incontrollato della rete può portare al diffondersi di determinate convinzioni, errate, veicolate da quello che è il pathos, il coinvolgimento emotivo delle persone stesse: pochi hanno avuto il buon pensare di andare ad analizzare le origini del manifesto, rendendolo una bandiera di una lotta che può sì avere grande senso, ma che nasce per un vero e proprio malinteso.
Così, se questa volta a trarne vantaggi è il mondo della cultura e delle arti, con un nuovo cavallo di battaglia per ottenere maggiore sostegno, possiamo assistere alla dimostrazione di come la manipolazione di una informazione possa avere un potenziale davvero pericoloso.
L’autore
Andrea Prosperi: Cresciuto a pane e social, è incuriosito da tutto ciò che accade in questo piccolo grande mondo.
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